Uno dei motivi per cui trovo il lavoro del grafico molto interessante è che ti mette sempre in contatto con persone differenti, che si occupano di attività diverse, e per le quali devi risolvere problematiche diverse di comunicazione. Ciononostante non vi dirò mai #IloveMyJob perché, nonostante tutto, ho ancora una dignità.
A cavallo tra il 2017 e il 2018 ho avuto il piacere di realizzare la grafica del packaging, e tutta la comunicazione, del disco Orizzonti Verticali (#OV18) di Luca Dorotea, in arte Doro Gjat (se non l’hai vista, puoi vederla al completo qui). Eravamo a conoscenza delle reciproche esistenze da tipo vent’anni ma, prima di questo lavoro, non avevamo mai parlato. E allora perché ci conoscevamo? Perché io con la faccia contro una parete ed in mano una bomboletta spray e lui sul palco con un microfono, dalla fine degli anni novanta, siamo intenti a portare avanti la disciplina dell’Hip Hop, e il nome della nostra regione, il Friuli Venezia Giulia. E poco importa se lui discende dalle montagne della Carnia mentre io pagaio sulle le acque della Venezia Giulia, nel 2019 queste diatribe tra Udine e Trieste sarebbe anche il caso venissero meno.
Senza tirarla troppo per le lunghe, che comunque per le lunghe ci andremo (ti avviso già), un giorno vengo contattato dal Doro, credo tramite DM su Instagram, che mi chiede se fossi disponibile a collaborare con lui a questo progetto e io, con immensa gioia, ho detto di si. E non è il solito “sono onorato di” che leggete sempre sui social, è proprio un “sono onorato” veramente. Perché possiamo rimanere umili quanto vogliamo, ma conosco il suo valore artistico e pure il mio, e sta cosa della scuola Hip Hip della fine anni novanta che cresce, diventa anziana, ma va avanti assieme facendo diventare una passione adolescenziale una professione, secondo me è una gran figata. Perché le volte in cui avremmo potuto perderci nel fare mansioni casuali per arrivare a fine mese sono state molte, #einvece siamo ancora qui, probabilmente sbagliando a spingere tutto questo, ma credendoci molto.
Devi sapere che ci fu un tempo in cui nel mio profilo Instagram non pubblicavo immagini create con le mazzette Pantone. Sembra strano, ma è così. E il Doro aveva visto proprio alcune di questi post arcaici, e per uno in particolare ha deciso di rivolgersi a me.
La foto in questione era questa qui sopra: una barchetta di carta tipo origami, con le facce colorate con parti del cielo, che andava frammentandosi mentre navigava. In passato le #stailboat furono una delle tematiche portate avanti nel mio profilo, poi sono un poco affondate a causa delle mazzette Pantone appunto, ma ogni tanto ritornano. Come gli zombie. Insomma, questa immagine fece pensare a Luca che io potessi fare al caso suo, e da qui partimmo.
Credo di non aver mai fatto così tante bozze, e così tante modifiche, come per questo lavoro.
Credo, anzi sono sicuro, che se fosse stato un altro a chiedermene lo avrei lanciato già dopo le prime, ma in questo caso la sinergia era assoluta e la stima reciproca molta. E gli appunti portati erano onestamente validissimi, cosa per nulla scontata.
Non ve le mostrerò tutte, perché sarebbe allucinante, ma non è un caso che in una delle prime bozze sia stato ripreso il discorso della deframmentazione della barchetta, che qui però prendeva la tematica delle foglie secche che cadono dall’albero e fluttuano nell’aria.
Ricorda la grafica finale, vero?
Nell’impostazione soprattutto: la forte presenza del bianco, l’andamento della foto speculare soprattutto.
Ma ora ti mostrerò questa (che è una proposta ben successiva), che invece è assolutamente distante dal risultato andato in stampa.
Però vedi, non dicevo bugie: nella proposta puoi vedere la barchetta di cui parlavo all’inizio (piccola sulla destra) e nuovamente il tema dei frammenti triangolari che volano per l’immagine.
Ma com’è possibile che il passaggio uno sia più vicino al risultato finale del passaggio due?
Perché il procedimento logico non è sempre lineare.
Si hanno idee, si sperimenta, si va avanti a volte con senno, altre a caso. Si ottengono risultati ottimi, altri pessimi, ma dei pessimi c’è sempre qualcosa che può essere salvato, e così si fa e si disfa, si va avanti ma si recupera qualcosa tornando indietro. Perché, magari, non è detto che fosse sbagliato, ma solo inserito in un contesto errato, però può essere riutilizzato meglio.
Bene.
Ho fatto t-r-e-n-t-a-d-u-e proposte di copertina.
Le ho ricontate per sicurezza.
La trentatreesima, come gli anni di Cristo, è quella che hai visto stampata.
La venticinquesima è stata presa come copertina del booklet contenente i testi delle canzoni, ed è questa qui sotto. Anche se prima di andare in stampa ha comunque subito potenti modifiche.
Per il resto il lavoro che si era presentato aveva comunque le “solite banali richieste“: doveva essere d’impatto, fresco, non banale, non troppo rap perché lo stile di Luca si è discostato senza però essersi staccato, parlare di queste terre però non solo alle persone della zona ma ad un pubblico più vasto, essere semplice ma ricercato, gradevole ma non scontato, rigoroso ma sbarazzino.
Come ogni grafico con un orecchio ascoltato il cliente, con l’occhio ho fatto un poco quello che volevo.
E infatti ho dovuto fare 32 bozze per arrivare ad una conclusione, questa.
Alla fine ho convinto Luca nell’utilizzo del bianco, che è un colore/non-colore per nulla scontato. Anche rischioso. Ma che in questo caso funzionava. In realtà inizialmente Doro Gjat voleva una copertina azzurra, perché uno dei suoi singoli di punta è stato “BLU” che appunto parla del del cielo. Ma quando fai le foto in Carnia in inverno, e hai me come grafico, le possibilità che il cielo finale sia azzurro sono onestamente poche. Non dimentichiamo di ringraziare il sempre ottimo Luca Della Savia, su Instagram come @Luce_dal_nord, per aver fornito gli scatti e non aver detto nulla circa la loro manipolazione.
La foto di copertina è scattata ai laghi di Fusine e la composizione finale è data da un riquadro specchiato 4 volte, in cui in due Luca è stato cancellato dallo sfondo. Nelle due in cui presente, è stato specchiato in modo alterno per dare movimento alla composizione e non rendere il tutto banale. È stato scelto per il titolo un carattere molto semplice, ben leggibile, ma di grossa presenza, che però non risultasse clamorosamente caratterizzante, lasciando maggiore parola alle immagini e ai colori della natura.
E proprio rimanendo nel discorso relativo ai colori, questi sono stati campionati dall’immagine ed utilizzati in scala per i numeri dei brani. Come vedi infatti si passa dal celeste del 01 al marrone scuro del 06, per poi tornare in scala a ritroso al celeste. Andando a ricreare la scala cromatica nell’ordine dell’immagine di copertina che dal cielo passa alla terra e poi contrario. Questo serve per dare maggiore coesione agli elementi, ma anche per dare un ritmo di lettura più cadenzato: numeri con colori a salita (e discesa), titoli dei brani tutto alto e bold, specifiche in light con il carattere alto-basso.
Tu chiamale se vuoi “pippe per grafici“, ma in realtà sono cose che percepisci, forse non sei allenato ma il tuo occhio sta comunque ringraziando. Il risultato finale è ben diverso da come avrebbe potuto apparire lo stesso elenco tutto in nero, tutto con il medesimo carattere utilizzato con lo stesso corpo, come accade spesso all’urlo “è un elenco vè!“.
Fatta la parte esterna del pack, mancava quella interna dove doveva essere posizionata una citazione.
Su una cosa siamo stati molto veloci e subito d’accordo: quello dell’utilizzo delle foto con le montagne sulle due pagine laterali, ruotate di 90 gradi che fa molto “Orizzonti Verticali” e che allo stesso tempo fanno da cornice e indirizzano al focus centrale dove si sarebbe trovata la frase.
Tutto molto bello, ma qui iniziano le rogne: come dare il giusto risalto alla citazione.
Inizialmente pensammo a un calligrafico, ma che non fosse un goticone di quelli che fanno molto rap ma che non avrebbe centrato nulla, pensavamo a qualcosa di più svolazzino, ma ben presto ci siamo resi conto che nessuno di noi avesse una scrittura dignitosa per metterlo giù, ed usare un carattere simil-calligrafico al computer sarebbe stata la la morte della calligrafia stessa.
Quindi che fare.
Inizialmente mi ero intestardito su questo pattern, che riprendeva da un lato la forma che racchiude il logo di Doro Gjat, dall’altro i colori di cui ho parlato prima. Ma non convinceva Luca, mentre io ero intrippatissimo. È uno di quei classici casi in cui la grafica diventa pura cosmesi e zero funzione. Al che tu ti devi fermare, anche se ti piace, e dire “ma posso farne a meno?“. La risposta è stata “SI“. Cazzo è stata si, capisci? È come quando rinunci alla maionese perché ha troppe calorie: è un momento devastante.
E quindi niente il bel pattern è stato piallato via. Magari tra qualche anno lo ritroveremo in un altro lavoro. Le strade della composizione grafica sono infinite.
La soluzione finale quindi è stata questa: molto razionale, ma molto sbarazzina al tempo stesso.
Un quadrato che racchiude il logo e l’hashtag, però non statico perchè i lati sfuggono fino a sfumare in bianco. I colori utilizzati sono sempre quelli campionati per l’elenco dei brani. La forma è quadrata dicevo, ma allo stesso tempo è una girandola super schematizzata, che obbliga chi tiene in mano lo stampato a girarlo per leggere le frasi, facendo così ulteriormente ruotare gli orizzonti delle montagne delle foto a lato, facendo sposare i testi alla grafica.
Sono quelle piccole “cretinate” che ti calamitano l’attenzione un attimo, quell’istante in più che però può fare la differenza, rispetto a molti altri prodotti che questa scintilla magari non te l’hanno donata.
Tipografia e linee: what else?
È anche il bello della grafica cartacea questo no? L’interazione tra immagini e tipografia e il mezzo su cui sono stampate, che permette un fruizione da parte del ricevente, un’esperienza visiva e tattile che su schermo è tutt’ora (forse per sempre) improponibile. Non vi parlerò dell’odore della carta perché, invece, è una cosa che non concepisco.
Il resto è storia nota: Doro ha fatto centomila date e io sono andato a sentirlo solo in due, perché tendenzialmente sono una capra.
Ma mi piaceva comunque raccontarvi alcuni aneddoti dietro a questo lavoro che a prima vista può essere banalizzato come “grafica di un pack” ma che in realtà porta con se molti pensieri, momenti e confronti. Spero così di aver dato alcune basi di ragionamento, alcune leggere nozioni nell’approccio e nel pensiero, e aver fatto capire che – anche se non sembra – il posizionamento di ogni singolo elemento ha un peso e un progetto alle spalle.
Poi magari il risultato finale ti fa schifa, ma quella è un’altra storia.
Non è bello quel che è bello, figuriamoci se è brutto.
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