Graffiti Wear

Signori, nella mattinata di oggi ho creato un nuovo paio di pantaloni da graffiti, detti anche “per pitturar“.
Ma come nasce un capo di abbigliamento atto ad andare a dipingere graffiti? Qual’è il percorso che un paio di pantaloni, una t-shirt o una felpa fanno per diventare oggetti così importanti nella vita di un graffiti-writer?
In realtà è molto semplice, e ora ve lo spiegherò.
Nel mio caso specifico ho l’ufficio adiacente al laboratorio dove tengo le bombolette spray e così quando mi gira, quando ho l’ispirazione, o quando qualche cliente malvagio decide di disastrarmi l’esistenza con modifiche allucinanti sui lavori, vado in laboratorio e dipingo. Potrebbe essere una tela, potrei provare gli spray su un cartone o potrei anche dover dipingere una fioriera per mia madre (si, capita anche quello: ti chiamano a far graffiti in mezza europa, ma alla fin fine finisci anche a colorare la fioriera di madre).
Mentre quando si va a dipingere un graffito in modo ufficiale si è mentalmente pronti all’atto, quando si va a fare un azione a spot di questo genere no. Di conseguenza prendi in mano uno spray, non metti i guanti, non ti cambi, tiri quattro righe di colore e ciao. Ti sei appena sporcato di arancione i nuovi jeans della lobster pagati una paccata e mezza di soldi.
Seguono bestemmie perchè sai che non andrà mai via neanche con il fuoco di San Antonio.
Insomma hai appena creato un paio di jeans da graffiti, che ti accompagneranno per anni e anni (o verranno buttato a breve).
Io ho una tenuta da live painting orribile che uso sia quando vado a dipingere un sottopasso sperduto che quando mi chiamano a dipingere a un evento della madonna. Più o meno tutti quelli che hanno inziato nel 1997 (o prima) come me ne hanno una. Sono degli abiti orribili (una volta fighi) che hanno visto con noi praticamente tutte le realizzazioni su muro, in mezzo mondo.
Penso alla maglia di felpa bianco e rossa Sly indossa da quando lo conosco o ai pantaloni di Asker, solo per fare due esempi di colleghi a me particolarmente vicini.

Nello mio caso specifico ho un paio di pantaloni di una tuta adidas che erano splendidi: blu con le strisce argento. All’epoca.
Li sporcai in un caso fortuito come quello di oggi e dopodichè accompagnarono ovunque. Li portai nel loro lerciume con me in mezza Italia, in Svezia e in Olanda. A Los Angeles no, solo perchè sapevo che avrebbe fatto molto caldo.
Dopo 17 anni di graffiti il blu è quasi un ricordo: lo strato di vernice che li ricopre è oramai totale e mia madre ogni volta che mi vede indossarli mi supplica di bruciarli. Ma come potrei farlo? Sono miei compagni inseparabili da sempre.
Ma oggi ho rovinato questo altro paio, che in qualche modo hanno anche loro una storia lunga e intreressante: fecero con me il Cammino di Santiago: potrebbe essere la volta buona del passaggio del testimone.
Per quanto riguarda la felpa la storia è molto più lunga: ne ho infatti una, grigia appartenente ad una tuta pesantissima con la quale si poteva andare anche al Polo Nord senza niente altro sopra, comprata in Svezia nel 1992.
Quando hai 12 anni ti vengono regalati sempre i vestiti “in crescita“.
Avere vestiti “in crescita” significa per per anni ti staranno di nerec e quando la loro taglia sarà giusta, sarà anche il momento di buttarli in quanto vecchi e rovinati. Poteva essere il caso di questa tuta (per i pantaloni lo fu, anche se durarono anch’essi a lungo) ma ho prolungato la sua vita ad oltranza.
Quando la felpa iniziò a rovinarsi divenne la mia maglia da portiere in campetto. In campetto si gioca su terreni impervi: secchi e devastanti come la carta vetrata in inverno, fangosi e collosi come la morte in autunno, per poi passare a giocare sul cemento in inverno. La felpa resistette a tutto questo e divenne poi la mia maglia da allenamento quando divenni portiere di calcio a 5 della Torriana di Gradisca.
I miei legamenti si ruppero e dovetti smettere con il calcio, ma non con i graffiti e quindi la felpa divenne la mia compagna inseparabile di realizzazioni su muro: se vedete le mie foto di quando dipingo, a meno che non sia estate, indosso da sempre questa felpa grigia. Che ormai presenta tessuti così consumati che da pesantissima come si presentava nel 1992 è ora un capo leggerissimo.

Storia similare vale per le scarpe, anche se il primo paio di eroiche adidas gettato molti anni or sono, ci fu un secondo paio di scarpe schifose che mi accompagnarono per anni. Al momento non le uso più per un semplice motivo: sono rimaste in Svezia. L’ultima volta che sono andato a dipingere a Norrkoping infatti ho fatto un errore clamoroso: ho sbagliato il conteggio del peso della valigia Ryanair. Mentre la prima volta infatti avevo imbarcato un bagaglio e me ne ero portato con me uno a mano (carico di laptop, tablet, macchina fotografica etc) la seconda mi sono scordato di aver fatto questo e mi sono portato solo il bagaglio a mano. Va da sè che non ci stava nulla e per passare il controllo ho dovuto vestirmi con due felpe, mettermi calzini in tasca e compiere una scena di una tristezza aberrante. Al ritorno non ho voluto ripetere l’esperienza e ho chiesto al locale dove ho dipinto che, visto che da loro è stoccato un mio piccolo arsenale di colori, tenessero anche queste mie eroiche scarpe per quando tornerò. E soprattutto per avere meno peso con me in valigia.
Vige invece nelle nuove generazioni di writers, l’usanza di andare a dipingere con vestiti nuovi di stecca delle più costose marche di streetwear. Io, essendo ormai vecchio, chiaramente non li capisco, ma nemmeno li condanno.
Per quanto mi riguarda il resto è storia nota: ho appena creato un nuovo paio di pantaloni per dipingere, sono a posto per i prossimi 20 anni.

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